Buffon riceve il Sigillo della Città: "Con Parma un amore incondizionato: è come la mamma"

A margine della cerimonia della consegna del Sigillo della Città di Parma a Gianluigi Buffon presso l'Auditorium Paganini, l'ex portiere ha ripercorso le tappe della sua lunga esperienza con la maglia crociata: "Che titolo dare a questa favola? Non so. Forse "Un amore irripetibile", un amore lunghissimo, una reciprocità di sentimenti enorme e di altissimo livello, a prescindere dai risultati. Amore incondizionato".
Le favole iniziano tutte con "C'era una volta"...
"C'era una volta un ragazzo arrivato a Parma a tredici anni, molto spigliato, con tanta energia e sogni nel cassetto. Fra questi, c'era il sogno di giocare al Tardini e diventare un calciatore professionista, poter rappresentare il Parma e la sua gente nel migliore dei modi. Ma questo era solo un sogno, non pensavo si potesse verificare perché non sapevo se avrei mantenuto le aspettative, e non sapevo se il Parma poteva avere quel tipo di ambizioni e potenzialità, perché quando arrivai era ancora il 1991. Delle volte però i sogni si realizzano, e quindi dopo un bellissimo percorso fatto in città, di affetto, stima e condivisione, con persone come Fulvio Ceresini e il figlio Matteo, Sandro Nista, Sandro Melli... insomma, prima di arrivare a essere professionista c'è stata tanta di questa interazione con Parma. Una volta arrivato sul palcoscenico più luminoso è stato molto più facile, perché la gente era realmente a mio sostegno. Da un altro punto di vista è stato complicato, perché per uno come me che ha sempre cercato di coniugare le vittorie personali e di squadra con il rispetto della gente, quando non arrivavano le vittorie il poterle metabolizzare per me è stato più duro. Ma questo è sempre stato così lungo tutta la mia carriera, alla fine in tutte le volte che ho perso il vero dispiacere è stato non poter dare una gioia ai tifosi. Andavo in campo anche per me stesso, ma andavo in campo soprattutto per fare felice la gente che rappresentavo".
Come hai vissuto Parma?
"I miei luoghi dai 13 ai 23 anni erano i luoghi di ogni parmigiano. Sono cresciuto nella zona del Collegio Maria Luigia, perché i primi tre anni eravamo lì con gran parte dei ragazzi delle giovanili. Ci ritrovavamo allo Snack Bar con gli altri ragazzi, ed erano momenti di goliardia e condivisione. Oppure era Piazza Garibaldi, che all'epoca aveva tre o quattro bar dove ci si incontrava, c'era via Farini... insomma, ho sempre vissuto il centro città. Sono sempre stato fra la gente, e per me è stata una grande sofferenza dovermi estraniare, una volta diventato "famoso", da quel tipo di vita. Perché alla fine mi sono alimentato con i rapporti con le persone. Per me è stato imprescindibile vivere in centro, significava ritrovare le persone e un modello di vita che mi avrebbe gratificato. Secondo me in quel momento di grande delusione sportiva per la gente c'era anche bisogno di ritrovare un rapporto diretto con qualche giocatore che sentisse le ragioni del malcontento delle persone. Penso di aver avuto anche questo tipo di funzione. Il primo anno che sono tornato è stato molto duro calcisticamente parlando, ma mi ha regalato tante emozioni, perché ho avuto la conferma di essere arrivato nel posto dove volevo nel momento in cui c'era bisogno di uno con le mie caratteristiche. Il secondo anno è stato migliore, gli ultimi tre-quattro mesi sono stati gratificanti perché avevamo cominciato un percorso virtuoso, fatto di vittorie e convinzione. Purtroppo non siamo riusciti ad andare in Serie A in quell'anno, c'è stata la delusione con il Cagliari, però quest'anno i ragazzi hanno fatto un cammino vincente da protagonisti".
Cos'hai capito in tutti questi anni delle persone di Parma?
"Ho capito questo: che all'inizio un po' ti scrutano, magari sono non dico diffidenti, ma vogliono capire con chi hanno a che fare. Una volta che ti hanno accettato, ti esalteranno sempre e avranno sempre una gioia nel rivederti che è qualcosa di fuori dal comune, perché sarai sempre come un loro familiare. Quando sono ritornato qua mi sono sentito così, come tornato in famiglia: quando parlo della mia carriera, dico sempre che a Parma ho fatto tredici anni e che la sento come la mia mamma. Alla Juve ne ho fatti venti, la sento come mio papà. La cosa che mi piace della gente di Parma è che parlandone con mia moglie e i miei amici dico sempre che vi ho ritrovato l'educazione, che è qualcosa che manca in tante città e ambienti. Mi sono commosso perché ho ritrovato gente educata, perché qui c'è un valore sociale di primo livello".
Con Parma pensi che vi somigliate?
"Sì, siamo simili, anche se penso di aver portato un po' di quella sana follia che mi ha sempre caratterizzato. Magari Parma non era proprio una città che si confaceva a queste caratteristiche, ma aver smosso le acque col mio carattere secondo me ha fatto sì che la gente mi apprezzasse, perché uscivo un po' fuori dai canoni del calciatore. La gente aveva capito che intercettavo i loro sentimenti, traducendoli in campo o anche fuori, ma la gente capiva soprattutto la finalità di questo. Anche per questo mi hanno lasciato passare alcuni errori che ad altri non avrebbero fatto passare".
E pensare che nel 1991 arrivasti che eri centrocampista.
"Non è proprio così, dico la verità. Diciamo ex centrocampista, perché divento portiere nel 1990: faccio un anno da portiere e poi il Parma mi prende per 15 milioni di lire. Diciamo che hanno fatto un buon affare. Devo dire che ci hanno anche visto lungo, così come c'è visione e programmazione adesso, devo dire che allora furono molto bravi. Così come Ermes Fulgoni, che era l'allenatore dei portieri del settore giovanile: prima ancora che finissi il provino a Parma, andò dal ds del settore giovanile Fabrizio Larini a dirgli: "Questo qua non dobbiamo farlo uscire da qui". Questo suo entusiasmo colpì anche me: vedere un allenatore che usava certi aggettivi per un ragazzo all'epoca di dodici anni, che aveva tante speranze ma poche certezze, era qualcosa che mi diede forza. Dal primo giorno che mi ha visto, Ermes diceva a tutti che a 18-20 anni sarei stato il portiere della Nazionale. C'era gente che rideva e diceva che ci sono tanti a cui si dicono queste cose e che poi fanno un'altra fine, invece per Ermes era diventata quasi una fede. In effetti non aveva esagerato".
Dicono che ti sei spostato in porta solo perché gli altri portieri si erano infortunati...
"Vero fino a un certo punto. E' successo che in due o tre partite i portieri si erano infortunati e allora ero finito in porta per via della mia stazza. Però si parla di due o tre anni prima che diventassi portiere. Anche in quelle partite, però, mi accorsi che sapevo fare bene quel ruolo. La folgorazione è stata nel 1990, quando nei Mondiali oltre all'Italia tifavo Camerun e c'era Thomas N'Kono, che era un portiere straordinario per l'epoca, specialmente nel panorama africano. Mi ha dato la spinta e il coraggio per provare a emularlo, per cambiare ruolo. Fino a quel momento nel mio territorio ero conosciuto come centrocampista, e se cambi ruolo magari sei vittima di qualche maldicenza. Invece il suo esempio mi ha dato la forza per cambiare. Anche il supporto di mio padre è stato importante: quell'anno lì è stato il mio sliding door. Ho cominciato a giocare in porta a dodici anni, esordendo in A a diciassette: in cinque anni fare questo secondo me è clamoroso".
Nel 1990 diventi portiere, nel 1991 arrivi a Parma, nel 1995 non solo esordisci in Serie A contro il Milan, ma sei uno dei migliori in campo. Ci racconti quei quattro anni?
"Sono stati una cavalcata continua, dal primo anno in cui giocavo nei Giovanissimi Provinciali contro le squadre del territorio. Vincevamo anche con risultati come 13-0, 9-1, eccetera, quindi non riuscivo ad avere una reale percezione di quello che poteva essere il mio livello. Però avevo secondo me il desiderio di affermarmi, e riuscivo a comprendere bene gli insegnamenti di mister Fulgoni. Questo mi ha fatto bruciare le tappe, perché il primo anno, avendo un campionato meno impegnativo, mi è servito per lavorare e fare allenamenti specifici, apprendendo in maniera veloce. Era tutto alimentato dal sogno di affermarmi, di giocare in Serie A con il Parma. Devo dire che per noi della nostra generazione diventare qualcuno era anche un equilibrio esistenziale, per noi significava diventare una celebrità. Secondo me oggi i ragazzi non hanno quell'esigenza, perché con il discorso dei social e questi canali loro hanno già la conferma di esistere, con un loro pubblico e la loro interazione. Noi forse avevamo più rabbia per arrivare a un certo traguardo".
Parma ha dovuto proteggere la tua crescita o è stato naturale?
"Penso che Parma abbia protetto la mia crescita. Come tutti i ragazzi, devi fare la trafila, in cui ci sono tante esperienze di vita, con tanti errori ed eccessi nel mezzo. Una delle mie difficoltà era nel fatto che, vivendo la vita con grandissimo entusiasmo, non sapevo dove mettere tutta quella energia. Proprio per questo mi inventavo delle situazioni che facevano discutere o che mi mettevano in cattiva luce. Un consiglio ai giovani? Se avessi tutta quell'energia che avevo allora, cercherei di incanalarla nel mondo sportivo se uno ha questa attitudine, perché lo sport secondo me ti fa crescere tanto, facendoti competere con gli avversari ad armi pari, e ti fa accettare le sconfitte, quindi la superiorità di un altro nei tuoi confronti. Ti aiuta a gestire le vittorie, facendo sì che sia un modo migliore per stare al mondo e interagire con gli altri".