Il padre di Cremaschi: "Benja vuole tornare a Parma e lottare per un posto"

13.10.2025 09:21 di  Tommaso Rocca   vedi letture
Il padre di Cremaschi: "Benja vuole tornare a Parma e lottare per un posto"
© foto di Mammoli/ParmaLive.com

Pablo Cremaschi, papà di Benjamin, ha rilasciato una lunga intervista a BolaVip, raccontando il percorso di suo figlio fino al trasferimento al Parma e al mondiale Under 20 con gli Stati Uniti. Questo il suo racconto: 

Dopo aver disputato le Olimpiadi con gli Stati Uniti, ora Cremaschi sta giocando il Mondiale Under 20. Come lo vivete in famiglia?
"La verità è che siamo super contenti perché lui sta molto bene, con un gruppo di ragazzi della sua età e in un ambiente molto bello dove si sente rispettato. Sinceramente se la sta passando alla grande. Noi siamo stati in Cile e lui è davvero felice".

Dopo l’esordio con la Nuova Caledonia, in cui ha segnato tre gol, Benjamin ha parlato dell’obiettivo di giocare anche il Mondiale del 2026 negli Stati Uniti. Credete in questa possibilità?
"E' in una lista potenziale di 60 giocatori. Credo che davanti a lui ci siano molti centrocampisti più grandi e già affermati nel gruppo di Pochettino. Lui adesso fa parte del gruppo dell'Under 20, ma non perde la speranza. Ha tutte le intenzioni di arrivare a giocare un Mondiale. Non so se sarà questo o il prossimo".

Prima di arrivare al Parma, durante le trattative, ha chiesto espressamente di poter giocare il Mondiale in Cile. Non è una richiesta comune a quell’età, al primo passo in Europa…
"Penso sia stata una conversazione che l'agente ha avuto con il Parma all’inizio delle trattative. Appena cominciarono disse: “Guardate, Benja è nel gruppo dell'Under 20, è il capitano della squadra”, per capire come lo avrebbero preso e qual'era la loro posizione. Il club disse subito che lo avrebbero lasciato andare e finì lì, non se ne parlò più. Credo che se fossero stati più rigidi o avessero cambiato idea, Benja non sarebbe andato, perché normalmente è il club ad avere la priorità, perciò lui avrebbe fatto ciò che il club decideva. Ma, come ti dico, fu una cosa messa sul tavolo all’inizio e chiusa subito. A lui piace molto stare là. Ha anche il desiderio di tornare a Parma per lottare per un posto, crescere calcisticamente, ma già l’impegno con gli Stati Uniti lo aveva preso e lo sta vivendo con grande felicità".

Come vivete in famiglia l’uscita verso l’Europa, che è un passo avanti nella sua carriera, ma che per voi significa non averlo più a Miami, non condividerne la quotidianità?
"Non solo questo, ma Benja viveva con noi in casa. Quindi, oltre a non averlo più a Miami, non lo abbiamo nemmeno a casa. Insieme a mia figlia che si è sposata quest’anno, nel giro di due o tre mesi se ne sono andati due. È un adattamento familiare, una cosa naturale. Ci manca molto, perché era bello vederlo andare agli allenamenti, vederlo tornare e sapere come stava, andare a tutte le partite. Ora lo abbiamo molto lontano. Comunque, l’adattamento familiare lo stiamo appena iniziando, perché lui è andato a Parma, lo abbiamo accompagnato a sistemarsi, in mezzo è partito per un camp in Spagna con gli Stati Uniti, che hanno giocato contro il Marocco, è tornato a Parma e noi eravamo ancora lì. Siamo tornati e poche settimane dopo è andato in Cile. E noi a vederlo là. Perciò non abbiamo ancora iniziato a vivere la vita “normale”. È stato un processo continuo da quando si è concretizzato il trasferimento, fino ad oggi. Una follia di movimenti, viaggi, partite e stress. Ed è necessario che lui inizi a fare una vita normale per potersi adattare alla squadra, al calcio italiano e continuare la sua carriera".

E com’è stato vivere con un calciatore professionista in casa? Sono cambiate molto le dinamiche?
"Credo non tanto negli orari o nei pasti, perché a quello ci si adatta. Nella dinamica familiare non era niente di insolito. Sì, nel giorno per giorno c’era una nostra maggiore partecipazione riguardo allo stress che genera stare in un ambiente così competitivo. Benja a 17 anni stava facendo il passo dalle giovanili a giocare le prime partite in prima squadra. E di colpo ti ritrovi a giocare con il miglior giocatore della storia, con altri fuoriclasse mondiali. È forte per un ragazzo. Ancora di più per lui che ha radici argentine, e che da piccolo aveva questi idoli a Barcellona. La dinamica in quel senso è cambiata molto. La parte emotiva è stata molto intensa e sono stati anni abbastanza interessanti per noi da quel punto di vista".

E il suo rapporto con Messi? Avete avuto modo di conoscerlo?
"Noi Leo lo abbiamo visto le due volte che l'Inter Miami si è laureata campione, quando siamo andati allo stadio ed entrammo in campo. Lo abbiamo salutato, scambiato due parole, ma mai cercato di “agganciarlo” o cose simili. Abbiamo sempre lasciato spazio a Benja per muoversi nel suo ambiente come doveva, senza essere invadenti. Il rapporto di Benja con Messi e con gli altri grandi credo sia stato molto buono, molto tipico di un giovane con giocatori più esperti. Con totale rispetto. Però d’altra parte, i ragazzi stavano più con i ragazzi e i grandi con i grandi. Non era un rapporto di amicizia, ma certamente di grande rispetto professionale all’interno della squadra".

La cessione verso Parma ha avuto a che fare con il fatto di non avere tanti minuti quest’anno o con il presunto disagio con Mascherano?
"Non ha avuto niente a che vedere con ciò. Era il passo naturale provare il salto in Europa, perché è il sogno di qualsiasi calciatore. Andare a misurarsi, vedere fino a dove si può arrivare. Si cercava una soluzione già da tempo e gli stessi allenatori, prima Berhalter e ora Pochettino, gli avevano detto che era positivo alla sua età fare quel salto. Era anche buono uscire di casa, dalla zona di comfort, come ha detto lui stesso. Smettere di essere troppo protetto qui e uscire nel mondo per vedere fino a dove può arrivare. Quello è stato il vero motivo. Il tema dei minuti, chiaro che in una squadra con tanti bravi giocatori puoi perderli, ma non è stato quello il motivo per cui Benja o il suo agente hanno cercato di sfruttare l’opportunità di uscire".

E come ha vissuto la decisione di rappresentare gli Stati Uniti a livello di nazionali? Quali reali opzioni ha avuto con l’Argentina?
"Il tema è molto semplice. Javier Mascherano lo chiamò per l'Under 19, un camp a Ezeiza un paio d’anni fa. Nello stesso momento, la nazionale maggiore degli Stati Uniti gli fece la prima convocazione per degli allenamenti e due amichevoli (contro Uzbekistan e Oman). Ovviamente lui è nato negli Stati Uniti, ma ha una cultura e una radice molto forti con l’Argentina, per noi e perché seguiamo il calcio argentino. I ragazzi sono sempre stati fan del Barcellona, delle squadre italiane dove giocavano argentini, eccetera. Però lui è nato negli Stati Uniti e lì ha ricevuto la sua educazione e vissuto tutta la vita. Ebbe una chiacchierata con Javier, ma alla fine non rimase con l'Under 19. E lo stesso Mascherano gli disse che aveva molte più chance di avere un’opportunità di arrivare più lontano con la nazionale statunitense che con l’Argentina. Se a questo aggiungi che lui si sente anche americano, la decisione è stata del tutto naturale, presa da lui, con la quale tutti noi eravamo d’accordo. Ti direi persino che il consiglio di Mascherano fu “Benja, vai per quella strada”. Perché stava avendo la possibilità di essere chiamato dalla nazionale maggiore e gli disse che lui stesso non l’avrebbe lasciata passare. Questi due elementi credo siano stati decisivi per rappresentare gli Stati Uniti".

Al Mondiale Under 20, se tutto va bene, Stati Uniti e Argentina potrebbero incrociarsi in finale. Ti piacerebbe o è una partita che preferisci evitare?
"Sinceramente non ci penso così. Io, anche se ho giocato a rugby, sono molto appassionato di calcio. Sono super tifoso della Nazionale, anche di River, ma non ho una preferenza su quale squadra gli possa capitare. Anzi, mi divertirebbe vedere una finale Argentina-USA, perché sono le due squadre che seguo e a cui voglio bene".

Credi che lui lo veda come te o che per lui sarebbe più emotivamente forte?
"Conoscendo Benja, per come pensiamo noi, non credo che ci sia un tema personale. Non c’è nessun conto in sospeso. Contro chiunque giochi, ovviamente vuole il meglio per la sua squadra, essendo capitano, ma la motivazione non credo gli arrivi dal rivale, ma dalla sua esigenza personale e dai suoi obiettivi. Davvero, se ti dicessi che voglio che l’Argentina perda per evitare una finale con gli USA… No. Non voglio che perda. Se vedo l’Argentina in semifinale, vorrò che vinca. Alla fine della giornata, non potrei mai desiderare che l’Argentina perda".

Qualcun'altro in famiglia ha scelto altri sport?
"Tutti giochiamo a golf, che se vuoi è l’unico sport individuale che facciamo, ma non è che siamo fenomeni. Ci piace molto. Ma i miei figli hanno sempre fatto sport. Il maggiore, di 24 anni, ha sempre giocato a calcio. Il più piccolo sta cercando di seguire un po’ le orme di Benja, provando ad andare in un college a giocare a calcio, che era poi quello che Benja stava per fare. Lui aveva una borsa di studio per tre o quattro università molto importanti qui, e alla fine firmò un contratto professionale con l’Inter Miami. Ma il suo piano era studiare e giocare. Questo stesso percorso lo sta seguendo Santiago, che già per l’anno prossimo sta decidendo tra due o tre università. Chiaramente lo sport è sempre stato fondamentale nella loro vita".

Ti sarebbe piaciuto che qualcuno scegliesse il rugby? Hai provato a spingerli in quella direzione?
"Benja giocava anche a rugby e quando passò da Key Biscayne a Weston, un club che gioca in una lega più competitiva con le giovanili MLS, dovette allenarsi tutti i giorni e lasciare uno dei due sport. E quando qualcuno mi dice “peccato che non abbia scelto il rugby”, rispondo che avrei fatto esattamente lo stesso. Quando giocavo a rugby a me stesso piaceva di più il calcio. E penso anche che se Benja fosse vissuto in Argentina avrebbe giocato a rugby, perché lì avrebbe avuto più opportunità. Qui è ancora agli inizi e invece il calcio gli offriva chance concrete, come per esempio andare in un’università con una borsa di studio. La decisione è stata naturale, senza conflitti".

Essendo stato anche tu giocatore di nazionale, che responsabilità diverse comporta questo privilegio?
"E ancora di più quando ti tocca essere capitano… Indossare la maglia del tuo paese, il giorno che mi capitò a Vélez, con l’inno nazionale… È un momento speciale, che vivi con enorme responsabilità ma anche con grande orgoglio. Senti che devi dare tutto, e credo che Benja lo stia vivendo così. Così glielo ha trasmesso anche il suo coach (Mitrovic), lo stesso che lo portò alle Olimpiadi. Ho parlato tanto con lui dell’importanza di essere un capitano che ascolta, che parla molto con i compagni, che mette la squadra davanti all’individualità. Gli ho dato il mio punto di vista sul ruolo del capitano".