Il Tempo - Elogio di Paletta orgoglio operaio

"Ho studiato l’inno, lo canterei. Non capisco perché a molti non piaccia, è un testo stupendo. Soprattutto il finale: siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Mette i brividi". Ancora non sapeva che avrebbe giocato in nazionale, al debutto mondiale per Brasile 2014, contro l’Inghilterra, eppure pochi mesi fa Gabriel Paletta, difensore oriundo argentino con pochi capelli ed una volontà di ferro, si sentiva già dei nostri. Perché Buenos Aires, dove è cresciuto, altro non è se non un pezzo di Italia in Sudamerica, perché le origini calabresi Gabriel se le porta nel sangue e perché il cuore conta, anche nel gioco del pallone. Per questo dopo il diluvio di critiche sulla sua partita di domenica contro gli inglesi, i voti bassi dei quotidiani, le ironie sul web e sui social, tutti a giostrare con il cognome in battute facili e da spiaggia, noi diciamo a gran voce: W Paletta. Viva la sua faccia vera, che non smorfia davanti alle telecamere, un viso da gaucho italiano; viva la sua umanità, che si trova in piccoli gesti, come domenica quando, dopo il gol di Marchisio per l’1 a 0 ha buttato un po’ di acqua della sua bottiglietta sul mucchio di giocatori azzurri accatastati per festeggiare. Un’acqua santa nel caldo torrido di Manaus, dove l’Amazzonia circonda una metropoli. Viva Paletta anche nelle sue giocate infelici, perché un giocatore - cantava Francesco De Gregori, con cui molti commentatori sportivi si son riempiti la bocca per anni - "lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia". Lui che ha giocato a Parma, una città tornata al grande calcio dopo alcuni anni di crisi, lui che non è Cassano e neppure Balotelli e ricorda semmai i giocatori faticatori, quelli che quando smettono non si ricorda (quasi) nessuno, come Bruscolotti del Napoli, come Furino della Juventus ma che sono indispensabili. Lui che nel suo essere oriundo si porta addosso il meglio dell’Italia, un Popolo - come è scritto in cima al Palazzo della Civiltà all’Eur, a Roma - «di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori». Gente che se n’è andata via nei decenni passati dall’Italia per farla ancora più grande. Ed allora inchinatevi, signori e signore, davanti a Paletta. Non parlate di secchielli, di palette da pizza o da vigili urbani ma di calcio. Che non è solo fantasia e attacco, genio e gol ma è anche sacrificio, errori, costanza, fatica, durezza.
Un gioco maschio come maschi sono i gauchos argentini ed i contadini italiani. "Il mio bisnonno Vincenzo - raccontò tempo fa in un’intervista Paletta - emigrò da Crotone. Io sono cresciuto a Longchamps, 40 minuti da Buenos Aires. Mio padre Hugo camionista tutta una vita, noi a casa con mamma Isabel. Quattro maschi, io il più piccolo, il calcio in testa, la venerazione per Maradona e un folle amore di famiglia per il Boca. Mio fratello Hector arbitra in A e in B; Ariel e Daniel sono al Racing Club, uno magazziniere, l’altro preparatore". Una famiglia italiana, anzi oriunda italiana. Senza grilli per la testa ma con i calli della vita addosso. C’è qualcosa di grande, di magico, di miracoloso, nel debutto ai Mondiali di calcio di Paletta, avvenuto domenica scorsa. Un contrappasso della vita dove i taccuini dei cronisti avvezzi a stare in tribuna e dare voti non potranno mai arrivare. Perché loro non giocano, sono giocati, dal pallone e pure da Paletta. Magari gli danno un votaccio, 4, o anche meno, per una prestazione ma non sanno che alla fine, nell’Almanacco del calcio, lui ci sarà e loro no. Troppo pigri. Mentre lui, Paletta, che non ha tatuaggi e non porta orecchini corre e gioca a pallone. Semplice, anzi, necessario.